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Il restauro del San Lodovico di Piero della Francesca PDF Stampa E-mail

L'intervento conservativo sul S.Lodovico di Piero della Francesca

di Guido Botticelli

Il San Ludovico di Piero della Francesca necessitava già da tempo di un mirato intervento di restauro. Bisognava risolvere i gravi problemi di degrado che minacciavano la conservazione del dipinto e rivalutarne la suggestiva bellezza ripristinando in qualche modo le originarie proporzioni spaziali del frammento, troppo limitato e costretto nell’incongrua sagoma centinata che lo conteneva.

Gli evidenti problemi di conservazione erano dovuti in gran parte all’operazione ottocentesca di stacco, intervento quanto mai fortuito ed occasionale che, nell’estremo tentativo di salvare almeno un frammento dell’antico dipinto ormai destinato alla distruzione, fu eseguito con un procedimento alquanto insolito e, peraltro, metodologicamente poco appropriato ai fini di un corretto recupero e di una adeguata trasmissione dell’opera nel tempo.

Dalle fonti documentarie sappiamo che durante l’intervento ottocentesco, dopo l’applicazione delle tele di protezione sulla superficie pittorica, l’affresco fu staccato demolendo pietra per pietra la struttura muraria che lo sosteneva e, contemporaneamente, rinzaffando e riconsolidando a tergo, con spessori rilevanti di gesso e canapa, l’intonaco che volta per volta rimaneva isolato.

Nel corso dell’attuale restauro questo particolare procedimento è stato ulteriormente confermato dall’insolita conformazione assunta dal supporto in gesso sul quale l’affresco era stato ricollocato e dalle irregolarità riscontrate a tergo dell’intonaco pittorico durante il nuovo stacco del dipinto, operazione questa resasi necessaria per assicurare una corretta conservazione dell’opera d’arte nel tempo.

L’intervento ottocentesco con molta probabilità fu giustificato dalla presenza di un muro ormai fatiscente e di un esteso fenomeno di decoesione del film pittorico, tali da far disperare il trasporto dell’affresco; tuttavia, le notevoli sollecitazioni a cui il San Ludovico fu sottoposto in quel frangente provocarono inevitabilmente i numerosi cretti della superficie pittorica e le profonde rotture dell’intonaco ancora visibili su tutto il dipinto. L’accentuarsi di tale degrado, inoltre, era stato favorito nel corso del tempo dal supporto non completamente rigido, e ormai marcatamente deformato, su cui l’affresco era stato riportato e che, ad ogni minimo movimento, procurava ripercussioni meccaniche sulla superficie pittorica.

Le indagini conoscitive condotte in preparazione del restauro avevano confermato la presenza di un fissativo superficiale di natura organica non definita e di resina vinilica, utilizzata in un più recente intervento di manutenzione, a consolidamento di parti di intonaco pericolante e del colore esfoliato. Al di sotto del fissativo era stata ulteriormente appurata la presenza di una sostanza grassa e catramosa, probabilmente un residuo della colla usata per l’intelaggio posto a protezione del film pittorico nel corso del delicato intervento ottocentesco di stacco e non del tutto asportata dalla superficie durante la successiva fase di rimozione delle tele. Tra i due fissativi, inoltre, erano chiaramente percepibili numerose e consistenti ridipinture che, alteratesi col tempo, avevano provocato un generale inscurimento della cromia originale, favorendo l’appiattimento dei volumi e del rilievo plastico della figura.
I danni presenti sul dipinto non erano naturalmente imputabili al solo intervento ottocentesco. Un notevole degrado era già in atto prima di quella drastica operazione e con molta probabilità era provocato dall’umidità di risalita che, oltre ad impedire lo stacco della porzione inferiore del San Ludovico, dovette essere la causa scatenante di un fenomeno di microsolfatazione ancora riconoscibile dalle numerose lacune di colore e di intonaco visibili su tutta la superficie e già reintegrate pittoricamente in passato (fig. 5). Le numerose ridipinture servivano a nascondere le lacune e le abrasioni del colore, localizzate un po’ ovunque sul dipinto, ma particolarmente evidenti sul lato destro del manto azzurro che, costituito da un pigmento applicato a secco – azzurrite - risultava meno resistente rispetto agli altri colori. (figg. 6-7) Sul viso del santo, inoltre, una buona percentuale del colore originale era andato perduto, lasciando sulla superficie solo l’impronta dell’antica cromia. (figg. 8-9)
Il precario stato di conservazione del dipinto non impediva, comunque, di rilevare la splendida e raffinata tecnica esecutiva, tipica di tutte le pitture murali di Piero della Francesca.
Il San Ludovico risulta eseguito a buon fresco, ossia con colori naturali stemperati in acqua e applicati su un intonaco ancora bagnato. Questo procedimento consente di ottenere una pittura particolarmente bella e resistente in quanto, durante la fase di asciugatura della malta, il processo di carbonatazione dell’idrato di calce contenuto nell’intonaco ingloba i colori fissandoli al supporto. Soltanto il manto del santo è stato realizzato con azzurrite, pigmento da applicarsi ‘a secco’ per mezzo di un legante organico e che nel nostro caso risulta steso direttamente sull’intonaco senza la consueta preparazione. Tuttavia, in fase di restauro, anche questo pigmento è risultato alquanto resistente: con molta probabilità è stato applicato su un intonaco non completamente asciutto, in modo tale che il lungo processo di carbonatazione deve aver favorito il processo di mineralizzazione del legante, rendendo anche questa stesura pittorica particolarmente compatta e tenace.
Sul dipinto sono state individuate almeno tre giornate di lavoro[7], ovvero tre porzioni di malta di non grandi dimensioni, perfettamente lisce e commesse tra loro, che il pittore doveva dipingere prima che l’intonaco asciugasse completamente in modo da assicurare che la pittura venisse eseguita perfettamente a buon fresco. Una di queste giornate è stata rilevata solo dopo lo stacco dell’affresco, osservando la commettitura della malta a tergo del film pittorico. Essendo stati stesi in tempi molto ravvicinati, infatti, gli intonaci hanno avuto modo di combinarsi perfettamente senza lasciare intravedere il normale susseguirsi delle giornate. (figg. 9a-9b) Il riporto del disegno sull’intonaco è stato eseguito per mezzo dello spolvero, tecnica comunissima a tutte le pitture murali di Piero della Francesca e che consisteva nel praticare dei fori a spillo lungo i contorni del disegno preparatorio riprodotto a grandezza naturale su un cartone. Questo, appoggiato sul muro ancora umido, veniva in seguito tamponato con un sacchetto di tela rada contenente polvere di carbone. La polvere, penetrando attraverso i fori, lasciava sul muro l’impronta della composizione da riprodursi in affresco facilitando il lavoro dell’artista. Le tracce dello spolvero sono ben evidenti lungo i contorni delle mani e sul volto del santo e denotano una grande accuratezza da parte del pittore nel riportare con esattezza i dettagli anatomici della figura (fig. 10). È curioso notare che per eseguire i contorni delle mani il pittore deve aver usato lo spolvero dal rovescio, ossia appoggiando il disegno preparatorio dalla parte opposta a quella della foratura cosicch? la carta, in quel lato del foglio non opportunamente lisciata, ha lasciato l’impronta in negativo dei fori sull’intonaco ancora fresco. Il disegno del pastorale è stato invece eseguito tramite l’incisione indiretta, come del resto tutte le riquadrature marmoree delle architetture (fig. 11). Si noti inoltre che per realizzare l’aureola del santo, costituito da tanti sottili raggi luminosi, Piero si è servito della tecnica dell’oro a conchiglia, ossia oro ridotto in polvere e applicato a tempera come un normale pigmento.
Dopo aver valutato attentamente le condizioni generali e i problemi di conservazione del dipinto, si è dato inizio al vero e proprio intervento di restauro che ha avuto luogo nei locali del Museo Civico di Sansepolcro. Dato che le limitate dimensioni dell’opera non richiedevano spazi appositi o particolari attrezzature di sostegno, ci è sembrato opportuno lasciare il dipinto negli ambienti espositivi del museo, approntando una sorta di cantiere ‘aperto al pubblico’ che consentisse il godimento e la fruizione dell’opera da parte dei visitatori e, contemporaneamente, rendesse questi ultimi partecipi ed aggiornati sullo svolgersi dell’evento.
Il restauro, realizzato tra il gennaio e l’agosto del 1998 sotto la direzione del dott. Stefano Casciu della Soprintendenza ai BAAAS di Arezzo, è stato condotto dal sottoscritto con l’assistenza della restauratrice Stefania Franceschini.
In base ai risultati delle analisi chimiche, e dopo una serie di piccole prove preliminari al fine di individuare la metodologia di intervento più idonea alle problematiche conservative riscontrate, il San Ludovico è stato sottoposto ad una prima pulitura della superficie, eseguita semplicemente con batuffoli di cotone imbevuti di acqua deionizzata. Successivamente a questa operazione, sufficiente ad asportare la polvere e i materiali incoerenti di deposito, sul film pittorico è stato steso un impacco di carbonato di ammonio il quale, in base ai risultati delle prove preliminari, è risultato il solvente più adatto al fine di facilitare il rigonfiamento e la rimozione del filmogeno presente.

Il procedimento di pulitura ad impacco, favorendo un’azione uniforme ed omogenea del solvente sulla zona interessata alla pulitura, attraverso l’allentamento dei legami chimici e la formazione di ‘sacche’ causate dallo sviluppo di ammoniaca ha consentito il rigonfiamento delle sostanze estranee alla natura dell’opera le quali, differenziatesi ormai dal film pittorico originale, sono risultate facilmente asportabili limitando al minimo l’intervento di rimozione meccanica. La scelta metodologica del carbonato di ammonio, inoltre, è stata favorita dal fatto che il solvente, mediante idonei tempi di contatto, non arriva ad interagire con la materia pittorica originale, così come il supportante che, essendo di materiale fibroso non solubile, può essere facilmente rimosso dalla superficie senza lasciare residui.

L’azzurro del manto, a causa della particolare natura del pigmento costituito da azzurrite, ha richiesto una differenziazione di metodo. In questo caso si è operato con impacchi di resine a scambio ionico stemperate in acqua deionizzata e applicate a spatola sulla superficie da pulire, rilavando successivamente la superficie con acqua satura di carbonato di ammonio: le resine facilitano il rigonfiamento delle sostanze organiche senza interagire con i pigmenti più delicati e facilmente intaccabili da altri tipi di solventi basici. Loi stesso metodo è stato adottato anche per i pigmenti verdi e rossi delle piccole figure sulla stola del San Ludovico.

L’intervento di pulitura, operando il recupero della materia originale, aveva messo inevitabilmente in evidenza tutte le abrasioni e le microperdite in precedenza nascoste da vecchie ridipinture. Tuttavia, nonostante le lacune, già in questa fase del restauro il dipinto aveva riacquistato una notevole forza cromatica e recuperato la profondità ed il vigore plastico originario.

Al fine di eliminare eventuali tracce di solfatazione e ridonare coesione materica al film pittorico, l’affresco è stato sottoposto al trattamento consolidante e antisolfatante eseguito per diffusione ad impacco di idrossido di bario, metodo messo a punto nei laboratori di restauro fiorentini più di trenta anni fa e ormai ampiamente sperimentato con ottimi risultati.  Questo trattamento, eseguito con materiali di natura esclusivamente minerale, ha consentito di ricostituire la coesione materica del film pittorico senza l’utilizzo di prodotti organici di sintesi che, come è noto, con il tempo sono inevitabilmente soggetti a modificazioni chimico - fisiche con conseguenti alterazioni della cromia originale dell’opera.

L’eliminazione dei cristalli del solfato, trasformati in solfato di bario, e la ricoesione tra il film pittorico e il supporto costituivano una condizione indispensabile per affrontare con sicurezza il successivo intervento di stacco. Come abbiamo già accennato, infatti, un problema rilevante per la futura conservazione del dipinto era costituito dal supporto in gesso privo di struttura rigida il quale, senza assicurare la stabilità dell’opera, favoriva, ad ogni movimento, ripercussioni meccaniche sulla superficie pittorica. Per questo motivo, d’accordo con la Direzione dei Lavori, è stato deciso un nuovo stacco con conseguente ricollocazione dell’affresco su un supporto più idoneo alla sua conservazione. In questo modo è stata eliminata anche la vecchia cornice lignea centinata che caratterizzava in modo non appropriato la presentazione dell’opera e che sembrava piuttosto un espediente per mascherare le lacune e lo stato frammentario del dipinto. La ricollocazione del San Ludovico su un nuovo supporto, infatti, era dettata anche dall’esigenza di una più funzionale presentazione estetica dell’opera, ripristinandone, nei limiti del possibile, le dimensioni originali. Nella situazione precedente, infatti, il dipinto già carente di riferimenti spaziali che ne indicassero le proporzioni primitive ed il contesto architettonico, era ulteriormente mortificato e costretto dalla incongrua incorniciatura.
I metodi comunemente usati per rimuovere una pittura murale dal suo supporto sono fondamentalmente due: lo strappo e lo stacco. Lo ‘strappo’ consiste nello staccare dal suo supporto solo lo strato del film pittorico, mentre lo ‘stacco’ prevede il distacco della pellicola di colore unitamente al suo intonaco pittorico, se non addirittura, in alcuni casi, anche al retrostante arriccio. Lo strappo è la tecnica operativamente più sicura, nonostante che l’affresco, dopo tale intervento, venga a perdere parte delle proprie caratteristiche materiche in quanto privato del suo supporto naturale, l’intonaco, che conferisce alla pittura murale quei peculiari pregi di trasparenza, solidità e luminosità. Nel nostro caso, tuttavia, la situazione alquanto insolita non consentiva un intervento del genere: si trattava di un dipinto già staccato in cui il colore risultava estremamente compatto e tenacemente legato al suo nuovo supporto.
In un primo momento si era pensato di ripercorrere la procedura dello stacco ottocentesco, proteggendo con la tela la superficie pittorica e rimuovendo, assottigliandolo meccanicamente, il gesso retrostante. Tuttavia, lavorando solamente a tergo dell’opera non saremmo stati in grado di controllare la superficie dipinta e di valutare se l’azione meccanica si sarebbe ripercossa sul film pittorico, rischiando di provocare lo strappo del colore. Il procedimento dello stacco si rivelava, infine, il più completo e il meno rischioso.
Siamo quindi intervenuti applicando a protezione del dipinto due tele, una di cotone, chiamata anche ‘cencio di nonna’, costituita da un tessuto molto morbido che si adatta a tutte le scabrosità della superficie, e una di canapa, molto più rigida e forte, capace di sostenere l’intonaco pittorico dopo lo stacco. Queste tele sono state applicate e fatte aderire con colla forte mescolata a melassa che ha la proprietà di rendere la colla più elastica in modo da evitare contrazioni indesiderate con conseguenti strappi del film pittorico.

Il lavoro di stacco si presentava alquanto complesso e difficile; la difficoltà era dovuta essenzialmente al fatto che il gesso applicato a tergo aveva uno spessore assolutamente disomogeneo e, in alcuni casi, in mancanza di arriccio poteva aderire direttamente all’intonaco pittorico, se non addirittura al film di colore. Procedendo con metodo, come se si trattasse di un affresco ancora sul muro, abbiamo picchiettato tutta la superficie dipinta precedentemente intelata con un mazzuolo di gomma, favorendo la decoesione dell’intonaco pittorico dall’arriccio sottostante, o eventualmente quella di entrambi i due strati dal supporto, costituito in questo caso da gesso e canapa. Il nostro lavoro è stato favorito dal fatto che, trattandosi di un affresco già staccato, era possibile indebolire l’adesione dell’intonaco al gesso picchiettando anche la superficie a tergo del dipinto, operando in tal modo una maggiore pressione.Nel frattempo era stato preparato un supporto di legno sagomato della forma e della grandezza dell’affresco su cui è stato fatto aderire un pannello di polistirolo espanso (supporto ammortizzatore). Il tutto è stato appoggiato davanti all’opera, fermando sul legno del supporto le tele di protezione lasciate oltre i margini del dipinto; infine, abbiamo svincolato l’ultima parte dell’intonaco ancora aderente al gesso staccando l’affresco, il quale è stato messo in piano sul tavolo di lavoro, steso sulla sagoma di legno provvisoria. Grande è stata la soddisfazione nel vedere che l’intervento era perfettamente riuscito: lo stacco, infatti, era avvenuto liberando senza problemi l’intonaco pittorico con parte del suo arriccio dal supporto in gesso, che a sua volta aderiva ancora al rinzaffo della muratura originaria.

Con molta cautela abbiamo eliminato a tergo dell’intonaco pittorico i residui dell’arriccio, predisponendo nel frattempo il nuovo supporto (fig. 21a). Al fine di evitare l’uso di materiali di natura organica o sintetica, abbiamo optato per un supporto minerale, molto simile a quello pittorico e quindi perfettamente compatibile con le esigenze e le caratteristiche dell’affresco. Si tratta di una malta composta da calce e sabbia con una piccola percentuale di gesso. Il gesso (solfato di calcio emidrato), oltre a non modificare il carattere minerale della malta, evita il normale fenomeno del ‘ritiro’ dell’intonaco e nel contempo consente di accelerare il processo di indurimento, adeguandolo alle esigenze operative. Questo materiale è stato già ampiamente sperimentato e convalidato proprio per la sostituzione negli affreschi strappati del vecchio intonaco ormai compromesso e anche nel nostro caso si è dimostrato perfettamente rispondente alle aspettative.
Nel frattempo è stato predisposto un telaio in acciaio inox il cui perimetro rispettava la forma esatta del frammento dell’affresco e all’interno del quale è stata saldata una rete metallica anch’essa d’acciaio inossidabile. Spolverato accuratamente il dipinto a tergo con l’ausilio di un aspirapolvere e inumidito l’intonaco al fine di consentire una migliore adesione e una più lenta carbonatazione, vi abbiamo applicato a pennello la suddetta malta, in modo da farla penetrare uniformemente in tutte le scabrosità. Dopo avere appoggiato a tergo il telaio in acciaio, facendolo combinare col perimetro dell’affresco, abbiamo ‘affogato’ la rete metallica con il resto della malta, pressandola in modo da farla aderire perfettamente con l’intonaco sottostante.
Dopo qualche giorno, fatto asciugare e carbonatare il nuovo intonaco, l’affresco è stato girato e, tolto il supporto di legno provvisorio, con impacchi di polpa di cellulosa e acqua calda sono state rimosse le tele di protezione, recuperando la pittura ormai assicurata al nuovo intonaco.

Terminata l’operazione di stacco, era necessario preparare il frammento alla sua nuova esposizione museale. A questo scopo, determinate sulla scorta degli studi metrico dimensionale effettuati preliminarmente le dimensioni approssimative della figura, è stato preparato un pannello dalla particolare struttura a ‘sandwich’ costituito da due strati di vetroresina con al centro un’anima a nido d’ape in lega di alluminio. Ritagliata all’interno del pannello la sagoma esatta del frammento ed eliminata in quella zona l’anima interna di alluminio, nell’incavo così ottenuto è stato inserito l’affresco in modo da lasciare in leggero sottosquadro il piano in vetroresina e assicurando il dipinto al nuovo supporto con staffe in acciaio uscenti dal telaio, bloccate al pannello con fermature di resina epossidica.

In seguito, tutta la superficie in vetroresina che circoscriveva il frammento è stata stuccata con una malta piallettata e finemente ruvida, in modo da riempire il dislivello creatosi tra il piano dell’affresco e quello del pannello e creare una sorta di campitura ‘a neutro’ che bene si armonizzasse con i valori cromatici del dipinto.
L’intervento di restauro si è concluso con il ritocco pittorico. In questa fase operativa, facendo uso di colori naturali stemperati in caseinato di ammonio, sono state reintegrate, con metodologie diverse, tutte quelle micro lacune di colore che impedivano una corretta ed equilibrata lettura dell’opera. A questo scopo, per non intervenire troppo pesantemente sul dipinto, il metodo della selezione cromatica è stato limitato alle ‘lacune-perdita’, ossia laddove non esisteva più il supporto pittorico che a sua volta è stato ricostituito per mezzo della stuccatura. Per il resto si è optato per un abbassamento di tono delle abrasioni al fine di valorizzare al massimo la cromia originale.

Il restauro del San Ludovico si è concluso nell’agosto 1998. Desidero ringraziare la mia assistente, la restauratrice Stefania Franceschini, per la preziosa collaborazione e la sua assidua presenza sul cantiere.

Ringrazio per il supporto scientifico i dottori Luigi Soroldoni e Umberto Casellato, oltre all’Amministrazione Comunale di Sansepolcro e a tutto il personale del Museo Civico che hanno collaborato alla buona riuscita di questo restauro. Un ulteriore ringraziamento alla dott.ssa Silvia Botticelli per il suo contributo a questa relazione.


 

 
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